Piove. La pioggia ce la siamo portati dal Giappone. “Ha fatto tre settimane di sole, mentre eravate via”. E nel frattempo parenti e amici si divertivano con il resoconto in presa diretta delle nostre disavventure meteorologiche, come quella delle scarpe fradicie puzzolenti, di cui ancora oggi qualcuno mi chiede notizia. L’idea di pubblicare online i resoconti di viaggio era stata mia. Volevo condividere, volevo rendere tutti partecipi. Condivisione era stata la parola d’ordine dei sei mesi precedenti.
Faccio fatica a trovare le parole giuste perché sarebbero comunque sbagliate. O meglio, dipingerebbero una realtà che non mi piace, perché anche se mi da parecchio fastidio, questo capitolo della mia vita ha indubbiamente la trama di un film drammatico per la tv del sabato pomeriggio. Quelli che hanno protagoniste donne a cui capitano le peggio sfighe dalle coincidenze più incredibili e che grazie alla loro tenacia e all’aiuto del Signore riescono a superare le avversità. Aiuto del Signore a parte.
Vorrà dire che procederò con calma, passo passo, a caso se ce ne sarà bisogno. Forse così sarà più facile. Anche perché nel frattempo ho disimparato a correre.
La pioggia mi ha stufato, sarà che la sto vivendo come un’onta personale. Oggi incomincio ufficialmente la mia nuova vita. Il sole mi manca e ho voglia di caldo, vivo questa pioggia come un dispetto. I motivi per rendere memorabile questo primo giugno sono già più che sufficienti. Anche se probabilmente me lo sarei ricordato più in rapporto agli eventi che l’avevano preceduto che non per la giornata in sé. Piove e impreco dentro di me perché quando piove si forma un lago nel sentiero dietro casa e devo fare la strada più lunga. È tardi. È sempre tardi per me. Devo correre, devo sempre correre. Prendo la corriera all’ultimo momento, di corsa. Potevo anche stare a casa, mi ripeto. In ufficio non avevo comunicato la data del mio ritorno e immagino che nessuno si lamenterebbe se ne approfittassi per fare ponte con la festa del 2 giugno. Senza contare che so dell’assenza del mio capo, a un congresso in Turchia. Ma ho deciso di andare, complice un fastidioso senso del dovere misto all’ansia di perdere il posto di lavoro (come fare della precarietà un mestiere) conditi con la voglia di raccontare gli eventi del mese precedente alla mia collega, Francesca la segretaria, probabilmente l’unica ad essere presente in istituto. Lavorare non è contemplato, chiacchiereremo per quattro ore, poi io me ne andrò che alle 3 ho l’appuntamento con la parrucchiera. Programma necessario visto che ho fatto crescere i capelli per un anno intero per averli lunghi il giorno giusto, ma ne sono stufa da almeno sei mesi.
Usciamo insieme dal portone, e visto che stiamo ancora chiacchierando mi accompagna per un pezzo. Siamo all’angolo di un incrocio, tengo d’occhio la strada da cui mi aspetto che arrivi la corriera. Dopo qualche minuto la corriera arriva, ma dalla parte sbagliata. Mi guardo in giro e in pochi secondi individuo il cartello che prima avevo ignorato, che avvisa dello spostamento della fermata. Non ce la faccio, penso, è dalla parte opposta dell’incrocio, devo fare due attraversamenti pedonali, è rosso, la corriera va più veloce di me. “Se corri secondo me ce la fai.” Dice la segretaria. E io le credo.