Pioggia

Piove. La pioggia ce la siamo portati dal Giappone. “Ha fatto tre settimane di sole, mentre eravate via”. E nel frattempo parenti e amici si divertivano con il resoconto in presa diretta delle nostre disavventure meteorologiche, come quella delle scarpe fradicie puzzolenti, di cui ancora oggi qualcuno mi chiede notizia. L’idea di pubblicare online i resoconti di viaggio era stata mia. Volevo condividere, volevo rendere tutti partecipi. Condivisione era stata la parola d’ordine dei sei mesi precedenti.

Faccio fatica a trovare le parole giuste perché sarebbero comunque sbagliate. O meglio, dipingerebbero una realtà che non mi piace, perché anche se mi da parecchio fastidio, questo capitolo della mia vita ha indubbiamente la trama di un film drammatico per la tv del sabato pomeriggio. Quelli che hanno protagoniste donne a cui capitano le peggio sfighe dalle coincidenze più incredibili e che grazie alla loro tenacia e all’aiuto del Signore riescono a superare le avversità. Aiuto del Signore a parte.

Vorrà dire che procederò con calma, passo passo, a caso se ce ne sarà bisogno. Forse così sarà più facile. Anche perché nel frattempo ho disimparato a correre.

La pioggia mi ha stufato, sarà che la sto vivendo come un’onta personale. Oggi incomincio ufficialmente la mia nuova vita. Il sole mi manca e ho voglia di caldo, vivo questa pioggia come un dispetto. I motivi per rendere memorabile questo primo giugno sono già più che sufficienti. Anche se probabilmente me lo sarei ricordato più in rapporto agli eventi che l’avevano preceduto che non per la giornata in sé. Piove e impreco dentro di me perché quando piove si forma un lago nel sentiero dietro casa e devo fare la strada più lunga. È tardi. È sempre tardi per me. Devo correre, devo sempre correre. Prendo la corriera all’ultimo momento, di corsa. Potevo anche stare a casa, mi ripeto. In ufficio non avevo comunicato la data del mio ritorno e immagino che nessuno si lamenterebbe se ne approfittassi per fare ponte con la festa del 2 giugno. Senza contare che so dell’assenza del mio capo, a un congresso in Turchia. Ma ho deciso di andare, complice un fastidioso senso del dovere misto all’ansia di perdere il posto di lavoro (come fare della precarietà un mestiere)  conditi con la voglia di raccontare gli eventi del mese precedente alla mia collega, Francesca la segretaria, probabilmente l’unica ad essere presente in istituto. Lavorare non è contemplato, chiacchiereremo per quattro ore, poi io me ne andrò che alle 3 ho l’appuntamento con la parrucchiera. Programma necessario visto che ho fatto crescere i capelli per un anno intero per averli lunghi il giorno giusto, ma ne sono stufa da almeno sei mesi.

Usciamo insieme dal portone, e visto che stiamo ancora chiacchierando mi accompagna per un pezzo. Siamo all’angolo di un incrocio, tengo d’occhio la strada da cui mi aspetto che arrivi la corriera. Dopo qualche minuto la corriera arriva, ma dalla parte sbagliata. Mi guardo in giro e in pochi secondi individuo il cartello che prima avevo ignorato, che avvisa dello spostamento della fermata. Non ce la faccio, penso, è dalla parte opposta dell’incrocio, devo fare due attraversamenti pedonali, è rosso, la corriera va più veloce di me. “Se corri secondo me ce la fai.” Dice la segretaria. E io le credo.

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Del perchè

Quando stai meglio inizi a dimenticare, perchè è facile abituarsi a una condizione di maggiore benessere. Succede con i soldi. Succede con la salute. Diventa sempre più difficile percepire il dolore, l’importanza delle mete conquistate sbiadisce e la ruota del quotidiano rimesso in moto allontana i ricordi.  È complicato trattenere vivido quanto successo, conciliare la necessità di fare tesoro della lezione della sofferenza con quella di riprendere in mano la propria vita. Conservo e stipo quantità discutibili di oggetti, foto, ricordi, purché sia tutto sigillato in apposite scatole situate negli angoli meno accessibili della casa. Ripropongo tra le mura di casa quello che succede nella mia testa. I ricordi e le emozioni non vanno perduti, ma sono chiusi da qualche parte, lontani dalla consapevolezza. Ad ognuno le sue strategie di sopravvivenza. E mi scoccia pensare che anche questa volta vada così, perché non c’è stata sopravvivenza. Affatto.

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Aprile dolce dormire

“I love to sleep. My life has the tendency to fall apart when I’m awake, you know?”
E. Hemingway

Le era sempre piaciuto dormire perchè del dormire le piaceva tutto. Era una delle poche cose al mondo che non poteva tradirla. Prima di tutto le piaceva andare a letto. Infilarsi sotto lenzuola profumate di bucato e lisce di stiratura, avvertire il soffice avvolgimento delle coperte trattenute sotto il materasso. La confortante sagomatura del cuscino attorno alla testa. Avvertire il torpore che pian piano cede il passo al sonno. L’idea di abbandonare il mondo per un pò, di spegnersi, di andarsene. Finchè dormi nulla ti può accadere, si ripeteva da bambina. L’unica condizione era di doversi nascondere completamente sotto le coperte. Solo così i mostri della notte non l’avrebbero individuata. E’ in questo modo che aveva incominciato a dormire con le coperte sopra la testa. Teneva fuori solo il naso, per respirare.
L’unica cosa brutta del dormire è che prima o poi si doveva alzare da letto. Il momento peggiore della giornata. L’istante in cui la schiena lascia la posizione sdraiata e le gambe scendono dal letto alla ricerca delle ciabatte. Quando poteva non lo faceva. Non si alzava. Rimandava. Rimaneva a sonnecchiare, rotolandosi nelle coperte. Oppure si girava dall’altra parte, per addormentarsi di nuovo. Le riusciva sempre.
Comprendeva a livello teorico i sostenitori della sveglia presto. Comprendeva chi dice che rimanere a letto è una perdita di tempo. Che ci sono altri milioni di cose da fare. Lo sapeva bene. Ma non le importava.
C’è qualcosa di più bello del dormire?

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Mal di pianura

L’autostrada aveva le caratteristiche proprie di una retta geometrica: un insieme di punti identici tra loro uno in fila all’altro, senza curve, senza interruzioni, infinito in entrambe le direzioni. Non se ne vedeva l’inizio. Non se ne vedeva la fine. Spaccava a metà la pianura.  Pianura davanti, pianura dietro, pianura ai lati. Una cappa di foschia e smog rendeva il cielo in quel finire di giornata opaco, (non)limpido. L’aria era densa, conteneva qualcosa di liquido. Si era resa conto di guardare a quella distesa di terra in veloce scorrimento con un certo disagio. Le mancavano i limiti. Le mancava sapere e vedere che quella terra prima o poi sarebbe finita. Era abituata agli spazi angusti e delimitanti di una fetta di terra in continua lotta tra le onde del mare e le rocce delle montagne. Quello spazio ogni volta conquistato le dava sicurezza. Il mare era l’infinito delle possibilità, il libro del futuro. Il mare era aria, ossigeno. Era respiro. Le montagne erano invece le sue custodi del passato, sfingi pronte a salpare.
Le mancava tutto questo nell’osservare l’opprimente e materico vuoto di quella terra sconfinata. Si chiedeva come si potesse vivere in una tale assenza di punti di riferimento, come tutto quell’orizzonte potesse essere casa per qualcuno.

Salutò con sollievo la vista delle prime colline.

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In cammino

I passi in avanti che faceva erano così piccoli – quasi solo accennati – che l’impressione era di non procedere affatto. Di essere sempre lì, impantanata. Il fango invisibile e vischioso di quel falsopiano rendeva impossibile fornire stime attendibili. Quanta strada aveva fatto? In quale direzione? A quale velocità? E il paesaggio era rimasto immutato come sembrava oppure qualche cambiamento era rintracciabile? La dilatazione del tempo e dello spazio offuscava i ricordi. Era sempre stato tutto così?

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3:15

Aveva deciso. Bisognava parlare e bisognava decidere il da farsi. Bisognava dirlo ai bambini. Due settimane con lui fuori casa non significavano niente. Erano la normalità. Era il significato da attribuire a quelle settimane che era diverso. Bisognava. Bisognava. Rebecca è grande e le cose le capisce e io glielo devo dire. Ma prima bisogna parlarne. Stasera vieni che dobbiamo parlare. – Ok. Sisi. Vengo alle 9. – Ma hai capito? Dobbiamo parlare. – Ok, ho capito. Ci vediamo dopo. Alle 11 lei lo richiama. E’ ancora in ufficio. Se non vieni, se non vieni…! Alle 2 è ancora lì. Gli occhi sbarrati. Troppo stanca per tutto. Se non arrivi entro le 3 giuro che lascio i bambini a casa da soli, vengo là e mi attacco al campanello finchè non scendi. Lui arriva alle 3 e un quarto. Lei è seduta sul divano. Non ha nemmeno più sonno. Non è nemmeno più arrabbiata. Non fa in tempo a parlare. Grazie di esserci, Fra. Grazie. Si siede con lei sul divano, la abbraccia e si addormenta.

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Addio

Mia nonna parla ai suoi morti. Non mi riferisco al fatto che mia nonna parla con le anime dei morti, che prega per loro, che dialoga con le fotografie o con le tombe. Cioè, anche. Ma questo lo fanno tutti.
Mia nonna parla con i morti morti. Con i cadaveri. Nel periodo che intercorre tra la morte e la chiusura delle bare mia nonna parla con loro. Li accarezza, piange per loro e con loro. Racconta loro quello che sta succedendo, quello che sente di dover dire. Più piange, più parla e più li tocca. C’è molta fisicità in quei contatti, molta vicinanza. Io non ho tutta questa confidenza con i morti. Li guardo da lontano, timorosa, quasi schifata. Non ho paura dei morti io, è dei vivi che bisogna aver paura. Dice lei. Sì ma se io posso quando muore qualcuno all’obitorio non ci vado mica. Con tutti quei morti che ti guardano. Mi trovo bene con i morti, io. Ripete. E non scherza. Mi chiedo che cosa sia successo. Il mondo in cui sono cresciuta io non è il suo. Quando si è perso il contatto con i propri morti? Quando la morte è diventata qualcosa da tenere a distanza?
Sono con mia madre. A distanza. C’è nonna che racconta a sua sorella di quanto sia arrabbiata. E triste. Com’è che la vita deve andare in questo modo? Già, com’è? Mamma, la nonna…la vedi? Mamma, le parla. Lo so. Lo deve fare. Lasciamola. Lo deve fare.

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Evidenze

Ha 50 anni ma lo chiamano ragazzo. E’ la prassi in questi luoghi della non-cura dove il tempo sembra essere sospeso in virtù del suo continuo ripetersi noioso e identico. Giorno dopo giorno settimana dopo settimana mese dopo mese. Anno dopo anno. Letteralmente. Abitudine dopo abitudine.
Gli piace Gaber. Quando mi vede canta: “E per fortuna che c’è MissBlum!” Lo fa con tutti, cambiando opportunamente il nome. Mi strappa sempre un sorriso.
Suo padre è morto da poco tempo. Settimane? Mesi? Non importa, qui.  Lo ha trovato lui. Morto. Chissà che cosa si sono detti, lui e il cadavere. Dov’è mio padre?Non lo so, secondo te dov’è? Sono davvero in difficoltà, nel mare melmoso della mia impreparatezza. Non so che cosa dire. Improvviso (male). Ci pensa lui. In cielo?In cielo, sì, dicono così. Che le persone poi vanno in cielo.No, secondo me non è in cielo. – Ah, ok, no. E secondo te dov’è?E’ a Staglieno è. Io ce lo vado pure a trovare, a Staglieno. Gli faccio visita una volta alla settimana. –  Eh, certo. ovvio. A Staglieno, hai ragione. Dove se no?.

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Quando piove il traffico si blocca e si accumula ritardo

Mi faccio spazio. Fa caldo. Quando piove l’umido dei corpi umani si addensa sui finestrini in gocce e rivoli. Trovo posto. Accanto un ragazzo ipodtaroccomunito ascolta (sbircio) i Lynyrd Skynyrd. Mette via l’mp3. Sospira. Guarda il finestrino opaco. Provo a leggere. Schiamazzi dal fondo della corriera. Li avevo addocchiati appena salita. Quattro o cinque ragazzi. Fanno casino. Parlano a voce troppo alta. Ridacchiano a intervalli prevedibili. Rumori. Forti. Dai discorsi che è impossibile non sentire si capisce che qualcuno sta dando testate a qualcosa. Al finestrino? Una ragazza che avrà vent’anni, sedutami davanti, si gira. E’ coinvolta in una discussione importante con un’amica. Via sms. L’amica sta decidendo se “fare questo” al quattroannichestiamoinsiemeragazzo. C’è di mezzo un altro. Si parla di trasferimenti. Chi scrive elargisce saggi consigli. Si gira di nuovo e penso che no, a venti anni non arriva. Quelli lì la stanno disturbando. Io non mi giro. Ma sono curiosa. Ascolto. Dai rifallo che così ti riprendo. Altra testata. Ora lo mettiamo su iutub, dai, lo mettiamo troppo su iutub. Intanto il mio vicino ha riacceso l’ipodtarocco. Dietro continuano a ridere e a parlare a voce alta. Uno di loro continua a bestemmiare usando distorsioni e perifrasi giovani che così non bestemmi davvero ma è come se. Non riesco a leggere. Ora sono in molti, a turno, a girarsi. La corriera è piena. Una signora con tono di supplica fa notare che è anche l’ora di smetterla. Reazione stereotipica: la signora diventa bersaglio dei loro scherni. Io penso che non li sopporto. Che non li ho mai sopportati. Che sono contenta di avere passato quell’età di merda.
Mi alzo per scendere. Mi giro e finalmente li guardo. Uno lo conosco. Ha la mia età.

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Negazione della recensione

Fuori era ancora giorno. Il cinema pomeridiano ha il fascino di sospendere l’esistenza. Si entra in un mondo di buio e luci artificiali che proiettano verso altri universi per poi tornare alla luce del giorno, bruscamente e inevitabilmente. Di sera è diverso. La notte naturale permette all’organismo un disassuefarsi graduale.
Questa volta mancavano le parole. Avevano già percorso almeno 50 metri e ancora nessun giudizio. Loro condividevano. Era il fil rouge del loro stare insieme. Solo recentemente però avevano davvero imparato la lezione.
Mah. Eh. Mah. Non è che sia un film fatto male o brutto. No. No. Però. Però. E’ disturbante. Sì, disturbante. Ti lascia un pò così. Io non mi aspettavo certe cose. Io sì, l’avevo letto. Ah. Però la scelta narrativa è interessante, non è il solito film che… No, infatti. E’ solo che… Secondo me potrebbe essere una metafora di… Sì, nel senso che… Come dicevo io. Sì. Interessante. Molto evidente. Già. E di quei film che ti lasciano un pò così e devono decantare.
Avevano trovato le parole. Fuori dai loro discorsi, il frenetico movimento del sabato pomeriggio cittadino.

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SMS

Non sapeva niente, solo qualche stralcio. Particolari. Frasi. Anatomopatologia della comunicazione. Fingeva di capire, di sapere. Spesso improvvisava. Era brava a mentire. Si allenava da tempo. Riceveva messaggi. Fitti, a decine. Oppure scarsi, svogliati. Lapidari. Confusi. Logorroici. Spesso chi scriveva stava male. Lei lo sapeva. Metteva insieme i cocci. E se lo chiedeva. Si chiedeva se avesse senso. Se potesse in qualche modo essergli di aiuto.

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Cambio di programma

Mancava l’anima. MissBlum sono sempre stata io. Blog e account. Seguivano i miei umori e i miei capricci. Ultimamente c’era demotivazione. E mancanza di un’idea a cui fare riferimento. Così ho pensato di cambiare. Di iniziare un progetto nuovo. Qualcosa con un’anima. Con un’idea. Speriamo bene.

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Quarto, ex manicomio

Qualcosa l’ha piegata. A metà. Camminando non può guardare il cielo. Solo la terra. Solo i suoi piedi. Chissà da quanti anni. Metafora del peso fatta carne . Di tutto il peso di una vita. La legge Basaglia avrebbe dovuto liberare? La libertà è un lusso che bisogna avere il privilegio di poter sfruttare. E poi libertà da che cosa? Dopo decenni i muri sono diventati interni, sinapsi e neuroni. Muri di neurotrasmettitori ammutinati. Abbattere le mura esterne sì ma per andare dove? Non esiste un dove, un luogo, una meta. Quando il carcere diventa casa tutto il resto non esiste. E’ l’ignoto. E’ l’abisso. E’ il male.
E così lei è rimasta qui. Come altri. Tra mura scolorite di vecchi palazzi dalle alte finestre arrugginite. Tra alberi che parlano e raccolgono storie. Si intravedono all’interno degli edifici stanzoni in cui fanno videoclip e gite turistiche. Anche questo al servizio di quelli che stanno fuori.
Lei e il suo gatto sporco e malato. Dove va lei, va lui. La cura. La segue. Rognoso come solo i gatti bianchi di strada sanno sembrare. Il colore del pelo tradisce la sua storia.
Stanno seduti insieme sui gradini che portano al passato, sotto un sole di inizio anno che non scalda, a togliere l’umido dalle ossa. Lei rannicchiata come un bambino che ascolta una favola, lui serafico a lavarsi il muso con la zampa. Loro sanno, si raccontano, si guardano. Occhi che si aprono su universi inconoscibili. Resta la loro silenziosa alchimia.

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Telegramma da e per il fronte (qualunque esso sia)

Volevo scrivere qualcosa di più articolato. Ero arrivata a una mezza cartella buona. Non me ne piaceva nemmeno una riga. Questo è quanto. Demotivazione. Pessimismo scrittorio. Non mi capita più di pensare in anticipo a possibili post. Non mi capita più di sentire il bisogno di scrivere qualcosa. Bisogna rattristarsene? Forse no. Tutto ha un perchè, ma non tutto è come sembra.

Righe sparse insensate e demotivate (forse è meglio ricominciare dai frammenti, dalle piccole cose)
Se avessi dovuto incoronare un film del 2008 sarebbe stato Il petroliere. Subito dopo Il divo e Il joker. Il resto mancia. Filosofia dell’ermetismo, del riassunto concentrato doppio concentrato triplo concentrato.
A me Lasciami entrare è piaciuto. Nella guera che serpeggia, aleggia, mormora tra i blog io mi schiero tra quelli che sì. E no, non sono tra quelli che si sono commossi. E no, non è per la storia del segnale morse. E venerdì esce Milk. E sono contenta.
L’ultimo film del 2008 è stato Stella. Anche di questo sono stata contenta. Adoro le tappezzerie anni settanta.
Inspiegabilmente mi sono trovata a rivedere Across the universe e altrettanto inspiegabilmente questa volta mi è quasi piaciucchiato. Misteri! (come direbbe Sandro Giacobbo) No, non sono misteri. Il tempo modifica, guarisce, sbiadisce, altera i contorni. Presente vs passato. Visioni alterate dal vissuto.
Vacanze di Natale votate alla cura dalle molteplici malattie e a una cura intensiva specialissima a base di Werner Herzog. Uomo che si ama. Si è pronti per la ballata.
L’uomo del mese di dicembre è stato Filippo Timi. Si attende l’uomo del mese di Gennaio. Proposte? (Perchè sì, a me anche Come dio comanda è piaciuto. E sosterrò fino alla morte che la scena della cariola e del greto del fiume è kimkidukiana).
Non cominciate a leggere libri di Giuseppe Genna. Si entra in un tunnel da cui è difficile uscire. Io vi ho avvisati.
Quest’anno niente propositi per l’anno nuovo. L’anno scorso ne avevo fatto solo due. E nemmeno troppo complicati. Ho fatto fiasco totale (chiedetelo alle persone cui do appuntamento o a chi mi vede la mattina presto) ma ho trionfato in ambiti inaspettati. La vita è imprevedibile,  si fa un baffo dei nostri buoni propositi, quindi rassegnamoci e prendiamo quello che viene.
Stop.

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Acqua

E piove. Come se non dovesse smettere mai. Come se dovesse essere questo il mondo, come se tutto fosse sempre e comunque stato questa cosa sgocciolante e umidiccia.
Piove da giorni. Piove da settimane. Piove tanto da far dimenticare il sole e il caldo e l’asciutto. Piove tanto da inondare le strade e i fiumi. E camera mia. Una sera torno a casa, metto i piedi sul tappeto e Sciaf!!, qualcosa di acquoso sotto i piedi. Tutto allagato. Piove tanto soprattutto la mattina appena esco di casa, meglio se c’è vento, così da assicurarmi un’intera giornata di umidità. E un giorno il vento era tanto forte e il mare era tanto mosso che in treno arrivavano le onde sui finestrini. C’era tanta gente perchè c’era da manifestare e gli animi erano tesi. Un ragazzino ha aperto un finestrino giustificandosi dicendo che tanto se il treno è fermo l’acqua non entra. Tutti a imprecare e a lamentarsi. E io vedevo il sale e le alghette scivolare sul vetro. E pensavo che in fondo era bello entusiasmarsi per quella cosa un pò pericolosa e un pò affascinante.
Il novembre della natura che fa strane cose. Come quel giorno in cui tutto il fiume si è inondato di una schiuma che a mia madre ricordava il blob del film. Anche se quando la gente dice blob a me viene in mente il programma di raitre quando aveva la sigla vecchia con la scena del film e non proprio il film.
Piove e la pioggia copre tutto, con il suo strato uniforme di H2O. Che poi, dico io, non finisce mai? A forza di scendere da quelle nuvole non si esaurisce? A pensarci bene la pioggia vola. Sta tutto quel tempo lassù sulle nuvole sfidando la forza di gravità. Vola. La pioggia è un miracolo.
Ma ora sono stanca e vado a dormire. Il rumore della pioggia è la migliore delle ninne nanne.

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Apologia dell’autunno

Tempo di non scrivere e non pensare ma di vedere e fare. Di soppesare la parole nel quotidiano snocciolarsi dei minuti. Tempo di allungare la mano e aspettare. L’autunno è la stagione dei progetti. Dell’estate che è già stata e dell’inverno che sarà. Dei giorni che si accorciano a ricordarci che il tempo non si può comprare.
Vite che si sdoppiano, si triplicano, intersecando realtà e pretesa tale in girandole di pensieri e visioni. Nel dubbio meglio tacere. Parlare quando si saprà cosa e come dire.
Silenzio.



Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre dell’anno 1944.

(B. Fenoglio)

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Paese che vai, usanza che trovi

IL PAESE DELLE TESTE DI CAZZO

Il vento fa il suo giro è la storia di un paesino abitato da immani teste di cazzo. A un certo punto un foresto arriva a turbare la quiete di suddetto paesino. Sarà lui a rompere l’incantesimo maledetto che vuole questo paesino abitato solo da teste di cazzo? Ma certo che no. Anche il foresto è una testa di cazzo. E gli abitanti del borghetto, da brave teste di cazzo quali sono, invece di festeggiare l’avvento di un loro consimile, decidono di fargli la guèra.
Scherzo.
Mi sono fatta un giretto e pare che Il vento fa il suo giro sia piaciuto a tutti tuttissimi. A me no, ecco. L’ho detto. Cioè, non è che non mi sia piaciuto per niente niente. Mi rendo conto che proprio quello che a molti è garbato è ciò che a me ha dato più fastidio. Quel suo essere sulla linea di confine tra realismo e grottesco stereotipato senza mai prendere una decisione. Nè film  realista (i personaggi sono troppo stereotipati: c’è lo scemo del villaggio, c’è il sindaco bonaccione, c’è la vecchiaccia isterica, c’è il tombeur de femmes, c’è il foresto fricchettone, c’è la moglie del foresto carina e gentile etc etc) nè thrillerone morboso, nè tantomeno grottesca parodia. Ma, giuro, fino alla fine lo si è guardato con speranza. Però. Però c’è quel finale. Il finale è brutto. E’ brutto a livello teorico, come modalità di concludere il film. E’ brutto nella messa in scena, con quel discorso in chiesa che non ci volevo credere.
Lo dico? Lo dico. Io volevo un finale alla Hot Fuzz.

Però io quel paesino lo voglio andare a visitare, è meraviglioso. E poi è nella valle dove andavo a fare i campi estivi da bambina. Oooohhhh.

NON E’ UN PAESE PER VECCHINE ARZILLE E SESSUALMENTE ATTIVE

Titoletto telefonato e scontato. Lo so. Ma non ho resistito.
Quello che sorprende e incanta di Pranzo di ferragosto è come riesca a trattare un tema triste e doloroso come quello degli anziani scarrozzati, sbolognati e affidati alle badanti. L’Italia è un paese di vecchi tanto che ormai la loro "sistemazione" è diventata una vera e propria emergenza sociale. Ma l’Italia non è un paese per vecchi, non è affatto a misura di vecchio.
Di Gregorio riesce a presentarci un gruppo di vecchine "tipiche", quasi banali nel loro essere realisticamente vecchie, a farcele amare e a farci ridere con loro. La vecchiaia è rughe, è memoria che ritorna al passato in modo ricorrente ma che difetta nel presente, è una lista di medicine da prendere, è nostalgia e solitudine, è noia, è un piatto di pasta al forno cucinato a regola d’arte (Zia Maria è la mia preferita), è voglia di scappare, è fame (di cibi proibiti, di affetto, di risate), è diffidenza verso il mondo esterno, è ricerca del conosciuto e dell’abitudine, è voglia di fare i capricci.
La vecchiaia può essere tutto questo e molto altro. Per una volta è stata un film che fa ridere e fa bene al cuore.

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Risvegli

Io appena sveglia non parlo. Prendo contatto con il mondo a fatica, i neuroni si riattivano lentamente e tutti gli input sensoriali giungono alla mia percezione ovattati e lontani. Il legame tra pensiero e linguaggio nella prima mezzora non è ancora stato ancora ripristinato e articolare parole mi risulta particolarmente difficile. Se mi vengono rivolte domande in questo lasso di tempo e io sono abbastanza in confidenza con chi le ha formulate mi permetto di rispondere grugnendo. Se posso non proferisco alcun suono, che è più dignitoso.
A volte però l’interlocutore insiste, oppure io stessa mi rendo conto che è il caso di rispondere in modo sensato. Ed è il dramma. Se mi concentro per parlare non riesco a pensare. E viceversa. In pratica, non so quello che dico.
Rimango poi in coma vigile per almeno un’ora. Tempo che si estende in maniera direttamente proporzionale alla quantità di sonno arretrato con cui mi sono svegliata. Nel mio caso il sonno arretrato è un postulato di vita. La domanda non è quanto hai dormito ma quanto ancora avresti voluto dormire? Sono una drogata del dormire. E’ un brutto male.
E’ un fatto comunemente risaputo la sostanziale differenza tra le persone che si svegliano già attive e quelle che no. Le prime si riconoscono perchè al trillo della sveglia saltato immediatamente sul letto, si alzano e danno l’avvio alla loro giornata. Alcune sono già in piedi perchè a loro la sveglia fa un baffo, hanno un accidenti di orologio interno tale per cui si svegliano quando devono e anche un po’ prima. Queste persone appena sveglie hanno tutte le connessioni al posto giusto: parlano e interagiscono con il mondo come se non si fossero mai nemmeno addormentate.
Io sono una persona che benedice ogni giorno l’esistenza del tasto snoozer (anzi, non bastandomi lo snoozer ho una sveglia programmabile su due differenti orari ciascuno dei quali può a volta essere snoozerato).
Ho ereditato il coma mattiniero da mio padre. Al mattino io e lui non parliamo. L’ultimo anno delle superiori ci alzavamo insieme e poi lui mi accompagnava in motorino a scuola. Il tutto in perfetto silenzio. Io non parlavo, lui non parlava. Agivamo in automatico da bravi sonnambuli quali siamo senza fastidiarci a vicenda. C’è da dire che mio padre non parla praticamente mai. Non perchè sia muto ma perchè è di quelle persone che ritengono inutile fare chiacchiera con il prossimo. Lui comunica con il mondo solo quando ritiene di avere qualcosa di sensato da dire. Diciamo che al mattino è ancora peggio (o meglio, a seconda della prospettiva) del solito.
Il problema è mia madre. Mia madre al mattino è sveglia. E vuole parlare. Se ci sono vuole parlare con me. E non le entra in testa che io non.ce.la.posso.fare.
Con la nuova sistemazione abitativa mi ero illusa di scampare non dico per sempre ma quasi alla tortura di avere a che fare con mia madre di primo mattino. Ahimè mi sbagliavo.
Ieri mi sono svegliata in condizioni pessime. Ho deciso di caracollare giù dal letto al 10° snooze. O giù di lì. Ero già potenzialmente in ritardo per andare a lavoro. Mia madre decide di venirmi a fare visita. Incurante delle occhiaie e dello sguardo catatonico, inizia a discorrere con me. Rispondo elargendo frasi generate automaticamente dal mio generatore di frasi di circostanza. A un certo punto, il dramma. La Domanda Specifica.
“Allora, me la dai la cintura?”
“Umh (biascicando un po’). Cintura…” Mi chiedo perchè accidenti mia madre al mattino presto mi venga a parlare di cinture.
“Sì, la cintura.”
“Quale cintura?”
“La cintura che mi hai detto che mi avresti dato.”
“Ti ho detto che ti avrei dato.” (ripetere i concetti degli altri in questi casi non solo simula una vera discussione ma permette di prendere tempo).
“Sì, me lo avevi detto. Per i pantaloni che mi cadono.”
“Te l’ho detto io.”
“Sì.”
Nebbia. Nessun ricordo in proposito.
“Ma quando?”
“Eh, qualche mese fa.” Allora, capiamoci. Mia madre non solo viene di mattina presto a parlarmi di cinture, ma pretende anche che io onori una promessa estortami mesi addietro. E di cui comunque non ho memoria.
“No mamma, non ero io.” Negare. Sempre e comunque. Negare negare negare. C’è sempre tempo poi per eventuali smentite.
“Ma sì che eri tu.”
“Ma no, non mi ricordo proprio. E poi, su, è mattino, non vedi che non ce la posso fare?” Seconda strategia: impietosire.
“Ma mi avevi detto che ce l’avevi…” Tono triste. Controstategia di madre: impietosire a sua volta.
“Va beh, poi ci guardo.” Prendere ancora tempo. “Ora scusa ma sono in ritardo.”

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Spie come noi

Il fatto è che non mi aspettavo di ridere, tutti ad andarci piano con le recensioni  tanto che alla fine non mi ero fatta un’idea. E invece ho riso parecchio. Ed è stata una piacevole sorpresa.
Stare a fare discordi sul genere non mi sembra possa avere un senso. Burn After Reading è un film in intrinsecamente coeniano, tutto equivoci e stupidità. La stupidità dell’americano medio, quello che il personaggio di John Malkovich dichiara di aver voluto combattere tutta la vita, proprio lui che invece passa per lo stupido del villaggio.
Il lato idiota dell’America alla Fargo viene qui portato alle sue estreme e risibili conseguenze, non a caso allargando notevolmente il tiro. Dove in Fargo tutto rimaneva nei confini di un paesino, qui il respiro si allarga fino ad abbracciare una dimensione internazionale. Del resto il sottotitolo italiano ci parla di spie, no?
Brad Pitt e George Clooney che fanno gli imbecilli sono sempre divertenti. Mio vanto personale il fatto  di aver potuto contare i segni dell’acne sul volto del primo, avendo visto il film in terza fila.
Pioggia + freddo che arriva + primo film che esce appetibile al grande pubblico = sala piena.

Ma il mio affetto va a Frances McDormand.

Finale con sorpresa.
Per quanto di voi lo sapevano e aspettavano, per quanti di voi non sapevano cosa ma comunque aspettavano, per quanto di voi non sapevano ma da oggi non potranno dire di non sapere, per voi insomma…Le Avventure di Cocca in Salento V.M.14. Ovvero, il lato stupido di una blogger in vacanza.
A proposito di.

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Piccoli cinefili crescono. Sempre meglio.

Primo giorno in cui rivedo il nostro amato Bambino G. nel dopo-vacanze. Lo trovo entusiasta del primo giorno delle medie. Aaaah, le medie. Bel periodo dimmerda.
Ma non è delle medie che voglio parlarvi oggi. Ci ha già pensato Elio a suo tempo.

Dialogo tra il Bimbo G. e la SottoScritta.

B.G.: Sai che ho due film di Charlie Chaplin?
S.S.: Ah sì?
B.G.: Sì sì, ho Il grande dittatore ad esempio. E’ una presa in giro di Hitler.

E comincia  raccontarmi la storia del film. Perchè lo ha davvero visto. Avrei voluto abbracciarlo e stringerlo.
Meno male che c’è il Bambino G. a ricordarmi che non tutto è perduto, in questo mondo.

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